All’anagrafe “emigrato”, per la comunità “mussomelese nel mondo”

Una settimana fa è stato registrato mio figlio nel mio comune di nascita. Finalmente, ho potuto dargli la cittadinanza italiana che gli spetta per legge. Nel momento in cui ho ricevuto il documento anagrafico riguardante lo stato di famiglia ho provato allo stesso tempo uno stato di felicità per mio figlio ed uno stato di tristezza nel vedere accanto al mio nome il termine “emigrato”.

A dir la verità non mi ero mai soffermato a pensare intorno al quel termine che per quanto mi riguarda pensavo fosse qualcosa che non mi appartenesse. Molte volte, in tanti lavori sul campo realizzati in America Latina, negli Stati Uniti o in Europa, questo termine lo associavo a quelle povere persone che affrontavano le pene dell’inferno in cerca di un futuro più degno per loro e per le loro famiglie. Ero consapevole di essere un emigrato che per scelta aveva cercato di realizzare i propri obbiettivi in diversi paesi finendo per caso del destino in Messico.

Ringrazierò sempre la Spagna ed il Messico per le opportunità che il mio paese non ha saputo dare sia a me che a tanti della mia generazione. Per molti, siamo dei vigliacchi che non abbiamo saputo trovare il nostro destino nella terra natia, per altri semplicemente siamo quella moltitudine che ogni anno va via dalla Sicilia per cercare di realizzarsi in altri posti. Per molti altri ancora, siamo solamente una faccia, un ricordo, persone che in un momento particolare della loro vita siamo appartenuti alla loro comunità.

Guardando e fissando quel documento che diceva “emigrato” ho sentito un dolore al petto. Ho provato quelle emozioni che in milioni, o meglio miliardi di persone, sentono al momento di dover lasciar tutto e andarsene. Certo io non ho preso la valigia di cartone con pochissime cose e me ne sono andato, al contrario per molti ho conosciuto il mondo, ho imparato ad apprezzare nuove culture ed ho deciso di stabilirmi a Puebla. Una bella storia certamente che non toglie il fatto di essere considerato all’anagrafe un “emigrato” e per la comunità un “mussomelese nel mondo”.

Da alcuni anni a questa parte la famosa festa degli emigrati che si celebrava in agosto è stata cambiata con il nome di “festa dei mussomelesi nel mondo” quasi a rinnegare il fatto che siamo sempre stati una terra di emigrati e che ora, dopo 50/60 anni di lavoro fuori, era doveroso secondo qualcuno chiamarla cosí dato che molte famiglie hanno raggiunto una posizione comoda che gli permette di vivere dignitosamente e passarsi pure qualche lusso, cosa impensabile 30 anni addietro.

Dal punto di vista sociologico sono innumerevoli gli studi sulle migrazioni nel mondo ed in particolare su quella italiana. Il giorno in cui ho consegnato in consolato i documenti che attestavano il fatto che mio figlio fosse effettivamente figlio di un cittadino italiano e con la documentazione richiesta potesse avere facilmente la cittadinanza italiana, mi sono ritrovato tra le mani, nella sala di attesa dello stesso consolato a Città del Messico, il report storico sulla migrazione italiana dall’unità d’Italia ad oggi. Dopo aver letto l’introduzione, la curiosità mi spinse a cercar subito i dati su Mussomeli e, come immaginavo, siamo tra i comuni italiani che storicamente abbiamo avuto un flusso enorme di emigrati verso il Nord Italia e verso l’Europa ed il mondo.

In quel momento incominciai a pensare su quante famiglie di mussomelesi, su quanti giovani e meno giovani sono stati costretti per la fame, la miseria e la mancanza di opportunità, a lasciare quel nostro amato paese per cercare speranza ed un futuro migliore altrove. La cosa che più mi faceva male in quel momento stava nel fatto che oggi a lasciar il nostro paese e la Sicilia, sono per lo più persone altamente qualificate, con una laurea in mano, che parlano diverse lingue e che sono una fonte di ricchezza per il mercato del lavoro ovunque tranne che in Sicilia. “Che valvola di sfogo” pensavo in quel momento, “…immaginiamoci se tutte queste persone non se ne fossero andate che problema sociale, economico e politico avrebbe dovuto affrontare la nostra comunità…!”. Problemi ancor di più rilevanti di quelli che ci hanno afflitto da sempre.

In quel momento mi sono venuti alla mente gli episodi, gli aneddoti, le esperienze che in 18 anni avevo vissuto come giovane mussomelese e siciliano che vedeva gli emigrati quasi come i fortunati che erano riusciti a lasciare quella nostra terra martoriata e che nel bene e nel male erano riusciti nella stragrande maggioranza ad avere un livello di vita migliore. Molti addirittura nella loro convinzione di essersi “sviluppati” rinnegavano il loro dialetto e proibivano parlarlo ai propri figli.

Ma quel termine “emigrato”, letto alla fine in un documento anagrafico, mi aveva suscitato emozioni che da almeno 20 anni, cioè da quando me n’ero andato da casa mia, prima per studiare e poi per lavorare, penso non volevo portarle fuori dal mio inconscio, forse per paura o forse per vergogna.

Alla fine nella vita non importa cosa sei diventato o no, o cosa sei riuscito a costruire. L’unica cosa che vale la pena è stare vicino a chi ami ed a chi ti ha dato la vita. Noi siciliani viviamo da sempre la condizione storico sociale del migrare. Senza dubbio rispetto a tanti altri emigrati negli ultimi due decenni magari siamo stati un po’ più fortunati. In ogni caso, indipendentemente dello status raggiunto, per chi come me ha dovuto lasciare la propria terra, rimaniamo sempre emigrati.

Anche se non vogliamo mostrarlo alla comunità celebrando la festa dei “mussomelesi nel mondo” e non “degli emigrati”. Anche se per molti siamo rimasti dei volti, dei nomi a volte da ricordare a volte dimenticati, continuiamo ad essere coloro che se ne sono andati. A questo punto viene pure in discussione l’identità o l’appartenenza alla comunità che per molti sta nel fatto di vivere in quella comunità. Senza dubbio l’identità nostra è oggi il mix di diverse esperienze di vita, di culture che ci hanno sfoggiato come uomini o donne il cui destino oggi non appartiene alla comunità di nascita.

In questo senso, a volte mi chiedo chi siamo e a quale comunità apparteniamo o che identità abbiamo. Alla fine non siamo né di qua né di la. Alla fine sembrerebbe che siamo degli ibridi che si muovono come stranieri ovunque andiamo. Per questa ragione considero che il fatto stesso di aver cambiato quel termine da “emigrato” a “mussomelese nel mondo” rifiuta ciò che coloro inizialmente istituirono come celebrazione in ricordo delle migliaia di paesani che furono costretti ad andarsene,. Chi ha cambiato questo termine alla fine svolge nel bene e nel male un certo revisionismo storico, quasi ad allontanare dalla stessa comunità una delle esperienze, forse la più drammatica, della stessa storia di Mussomeli.

In questo senso, sembrerebbe quasi un rinnego della nostra storia sociale ed economica, che permette di rinchiudersi in sentimenti “sovranisti” di odio e disprezzo verso coloro che alla stessa maniera oggi soffrono questa tragedia. Sembra quasi che se un figlio vada via dal paese per lavorare, egli sia riuscito a realizzarsi. In nessun momento si pensa che quel figlio sia venuto a mancare allo sviluppo stesso della comunità. Mentre se qualcuno di pelle diversa o di origine diverse stia cercando la stessa sorte da noi, quello si è un migrante, nella stragrande maggioranza dei casi da discriminare.

Quindi qual è la differenza tra un meridionale che va via ed un altro del “sud” che arriva? Senza dubbio lo status di cittadino europeo ti da dei vantaggi che lo status di cittadino africano, asiatico o latinoamericano non ti da. Indipendentemente da chi siamo, ciò che conta per il sistema è da dove veniamo. In questo senso, mi rabbrividisce il fatto di tanto odio, rancore, violenza verso coloro che cercano un futuro migliore da noi ma che purtroppo non hanno quello status di cittadino europeo che noi altri abbiamo. Alla fine la differenza tra migrante, emigrato e mussomelese nel mondo è solamente legale. Dal punto di vista emozionale, tutte e tre le categorie e le persone che ad esse appartengono soffrono in maniera diversa ma con elementi in comune. Effettivamente, solamente il fatto di vivere queste esperienze ti fa capire la costruzione di un modello legale che fa bene solamente a chi da esso vuol arricchirsi.

Alla fine, non è tanto se essere un “mussomelese nel mondo”, un “emigrato” o un migrante per lo stato di destino in cui siamo arrivati, ma solamente capire che, come in molte altre situazioni, mettiamo un velo per non voler vedere chi siamo, da dove veniamo o cosa storicamente abbiamo subito.

Alla fine è triste vedere che una terra da sempre caratterizzata da un continuo flusso migratorio verso il nord Italia o verso l’estero continua ad aver paura dei migranti. Solo nel 2019 sono andati via circa 14,000 siciliani. 
Ma d’altronde cosa ci si può aspettare da chi preferisce chiamarci ‘residenti nel mondo’ e non emigrati!

Giuseppe Lo Brutto

Director del Instituto de Ciencias Sociales y Humanidades 'Alfonso Vélez Pliego' de la Benemérita Universidad Autónoma de Puebla y profesor-investigador del Posgrado en Sociología del mismo instituto.

Un pensiero riguardo “All’anagrafe “emigrato”, per la comunità “mussomelese nel mondo”

  • Agosto 8, 2020 in 11:57 am
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    Bel post e belle riflessioni. Complimenti. Mi permetto di condividere sul mio profilo Facebook.

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